Storie
di barba e ièie
I racconti popolari di Fulcio Bortot
ADRIANA
LOTTO
Dopo
“Le terre del Conte”, Fulcio Bortot torna in libreria con venticinque
racconti popolari introdotti da Francesco Piero Franchi. A narrarli si
succedono “barba e ièie”, ovvero zii e zie, che, con un linguaggio
semplice, rincorrono fate e gnomi, diavoli e streghe, donne astute e maschi
allocchi. Magico e quotidiano si intrecciano, insomma, l’uno a spiegare
l’altro, così che questo non risulti troppo greve e quello troppo distante.
Dunque, se qualcosa va storto, non sempre bisogna recitare il mea culpa, perché
vi sono casi nella vita che nessuno può prevedere. Allo stesso modo, se
qualcosa di tanto in tanto va bene, è prudente non vantarsi troppo. Il
portentoso pertanto, nel bene e nel male, fissa un limite, non tra reale e
immaginario, ma tra reale e possibile, tra ciò che è e ciò che avrebbe
potuto non essere o essere in altro modo. La qualcosa non esclude il ruolo
degli uomini che spesso, anzi, provocati, non osservano limiti e divieti oppure
sono capaci di contrastare il male dando scacco al diavolo stesso. In ogni
caso, comunque, nessuno può dire di essere al sicuro, solo sperare che non
capiti troppo spesso che il diavolo o il caso bussi alla tua porta e ti metta
alla prova.
Una cultura del limite trapela da questi racconti: l’eccesso porta
sempre al contrario di ciò che si cerca, e la ricerca, come la vita, non
finisce mai, o meglio finisce, prima o dopo, con la singola esistenza. E quello
che si cerca è di stare meglio di come si sta, un poco soltanto, tuttavia,
perché il meglio nel senso del «bene» non esiste, nemmeno per re e principi
e principesse. Ne sa qualcosa Teresina dalle spine, mater dolorosa, o il Re
solitario o lo sfortunato figlio del re, il quale, per negligenza, perde
l’amata, come la volta prima Orfeo aveva perduto Euridice. Leggerezza,
negligenza, vanità, civetteria, arroganza e prepotenza sembrano essere i
difetti dei più giovani, uomini e donne, così poco avvezzi alla vita da
credere di dominarla. La brama di potere o di felicità affligge anche i
potenti, che vorrebbero persino poter leggere nei pensieri degli uomini, e che
a volte sono ricondotti entro i ranghi proprio da umili contadini, come nel
racconto “Il trono del re”, in un “contrasto” che non mette comunque in
discussione il potere, semmai la sua arroganza e ignoranza. E battuti senza
pietà sono gli stolti, che in quanto tali nulla possono capire, nemmeno che
sono stolti.
Dunque il male si può addomesticare, a volte neutralizzare, mai
eliminare. E il bene, tema del racconto di apertura, è uno stato di benessere
che dura da mezzogiorno all’una e che sente chi, a quell’ora, si trovi a
passare sotto le cime del Priéta, del Pizzocco, del Serva, della montagna di
Socchèr, alle pendici del Visentìn, sull’altopiano del Cansiglio o in Nevegàl.
Se quanto detto ha una sua legittimità, si può concludere che il libro è
adatto ad adulti e bambini, anzi, bene sarebbe che lo leggessero insieme, così
mentre gli uni ricordano, gli altri imparano.
Fulcio Bortot, Storie di barba e ièie. Racconti popolari del Bellunese,
Edizioni Campedel, Belluno 2005, Euro 13.00
Il
Corriere delle Alpi, martedì 20 dicembre 2005, pagina 42 - Cultura e
Spettacoli
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