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Campedel
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BONGIORNO
Lucio colletti
BONGIORNO, Lucio colletti
Autore:
BONGIORNO
Titolo:
Lucio colletti
Descrizione:
Editore:
Ideazione Editrice
Data di edizione:
ottobre 2004 1^ edizione
Pagine:
299
Dimensioni cm.:
14x21
ISBN13:
9788888800172
Codice:
170900
Collana:
Biblioteca pensiero contempo. 1
Prezzo:
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Dati aggiornati a ottobre 2004
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Lingua
Italiano
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La collana Biblioteca pensiero contempo.
Biblioteca del pensiero contemporaneo. La collana, diretta da Alessandro Campi, raccoglierà una serie di monografie, delle vere e proprie biografie intellettuali, dedicate ai maggiori pensatori contemporanei (italiani e stranieri).
Lucio Colletti. Tra scienza e libertà Con il volume su Lucio Colletti - di cui pubblichiamo la prefazione - Ideazione editrice inaugura una nuova collana editoriale: la "Biblioteca del pensiero contemporaneo". . Questo solitario dell'anima, che spesso affogava nella folla o in una mondanità improbabile la sua inquietudine o il suo bisogno d'isolamento, ha conservato tuttavia, nel corso di una vita ricca di cambiamenti profondi e di autocritiche vere e non rituali, una fedeltà di fondo a quella che era la sua natura più profonda: l'identificazione con i valori di libertà e di coerenza scientifica che egli riteneva, giustamente, essenziali alla professione dell'intellettuale. Intellettuale Colletti lo è stato per vocazione e per scelta fin dalla sua gioventù, assorbendo a pieni polmoni la ricchezza di suggestioni e stimoli, spesso contraddittori, degli anni a cavallo tra Resistenza e primo dopoguerra. Il suo azionismo, naturaliter liberale, nel senso più profondo del termine, cominciò a incrinarsi di fronte alla crisi di quel vaso di coccio rappresentato dal Partito d'azione tra i vasi di ferro dei partiti di massa. Ma anche sul piano culturale i suoi punti di riferimento entrarono in crisi a seguito della critica a cui Colletti, negli stessi anni del dopoguerra, andava sottoponendo la filosofia crociana, che nella tradizione italiana costituiva il vero e quasi esclusivo serbatoio ideale del liberalismo. Continuò tuttavia a resistere intatto in lui un bisogno viscerale di libertà, ribadito in seguito costantemente, anche negli anni e negli ambienti più dogmatici e conformisti: bisogno di libertà come conditio sine qua non per la ricerca (intesa già allora secondo le regole della scienza moderna, cioè per congetture e confutazioni), ma anche bisogno delle tante libertà necessarie alla vita, singola o associata che sia, perché possa conservare un sapore tutto sommato accettabile. Il percorso politico-culturale di Colletti s'incrociò, sul finire degli anni Quaranta, con lo scontro a livello internazionale e nazionale tra i due blocchi, e la sua scelta in favore del mondo comunista, che in Italia significava il Pci e, per un intellettuale, comportava la necessità di avvicinarsi a quella macchina da guerra (quella sì possente e letale!) che era l'organizzazione culturale comunista in senso lato (riviste, case editrici, università, ecc.), che egemonizzava l'intera intellighenzia italiana, quella scelta fu una sorta di atto di volontà più che un atto di fede. A proposito della guerra di Corea (evento cruciale dei primissimi anni Cinquanta), Colletti, per esempio, dichiarò di essere stato sempre convinto che l'aggressore fosse la Corea comunista. E tuttavia l'atto di volontà che lo portò tra le file comuniste fu una scelta in un certo modo tipica di molti intellettuali, che non si facevano illusioni sull'Urss, ma pensavano che il vento della storia soffiasse in quella direzione, che il marxismo potesse rappresentare la chiave per interpretarne le leggi e che compito dell'intellettuale fosse quello di assecondare quella tendenza, operando perché le cose in Occidente procedessero diversamente rispetto a quanto era avvenuto nell'Est europeo. Da quella scelta derivarono molte conseguenze destinate a segnare gran parte della vita professionale di Colletti, in particolare quella lunga marcia attraverso il marxismo e il movimento comunista, durata con modalità diverse per un quarto di secolo, al termine della quale di quella ideologia e delle esperienze storiche compiute in suo nome sopravvivevano, nell'analisi del nostro, soltanto un cumulo di macerie. All'inizio degli anni Ottanta, facendo un bilancio del suo lavoro - prima di approfondimento e poi di decostruzione del monumento costruito da Marx e dai suoi esegeti, e di polemica sempre più aspra con il movimento comunista - Colletti ne dava un giudizio fallimentare, quasi si fosse trattato di una fatica di Sisifo, uno spreco di energie consumate intorno a un'illusione. Il marxismo gli appariva ormai come una teoria priva di carattere scientifico e di ogni congruenza con la realtà del mondo contemporaneo, mentre il comunismo reale si era via via ridotto - ai suoi occhi - a un mostruoso sistema di Stati totalitari, il cui unico elemento vitale era una capacità d'espansione che all'epoca sembrava ancora inalterata. Naturalmente il bilancio fallimentare che Colletti tracciava del proprio lavoro era viziato dall'amarezza di un'esperienza vissuta come sconfitta e dal senso di vuoto conseguente al dissolvimento dell'oggetto di studio di tanti anni. Ma il bilancio personale era naturalmente diverso da quello pubblico. Era diverso il significato che il suo lavoro aveva assunto all'interno di un processo di revisione critica del marxismo e della storia del movimento operaio, che nell'Italia tra gli anni Sessanta e l'inizio degli anni Ottanta aveva rappresentato uno dei capitoli più vivi del dibattito culturale e politico. La lunghissima immersione che Colletti aveva compiuto per anni nei testi di Marx, a un livello di puntualità filologica e di lucidità critica che rimane esemplare e per molti versi ineguagliato, nel tentativo di trovare una base scientifica al sistema, costituisce un'impresa intellettuale che ha richiesto uno sforzo ciclopico, da un lato, e una grande onestà, dall'altro. Un'onestà che lo ha spinto, quando l'impresa si è rivelata disperata, ad andare fino in fondo e dimostrare le insanabili contraddizioni con la stessa veemenza e razionalità con cui ne aveva prima tentato di sostenere il fondamento, evitando, come era nel suo carattere, facili scorciatoie o uscite di sicurezza. Proprio lui, che a partire dalla metà degli anni Sessanta (anni, come sappiamo, non qualsiasi) era stato per un decennio il più agguerrito interprete di Marx in Italia, nel corso del decennio successivo, per tappe progressive, arrivò a dimostrare il carattere ideologico e non scientifico, in ultima istanza, del sistema marxiano, la filosofia della storia che stava alla sua base e il supporto intimamente e non casualmente totalitario che esso aveva offerto al movimento comunista. Certo, autori di tutt'altra matrice, ma soprattutto nutriti da ben diversi contesti culturali rispetto a quello italiano, come Weber, Kelsen o Popper, avevano già in passato avanzato alcune delle critiche che Colletti cominciò progressivamente a muovere a Marx tra la seconda metà degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, ma nessuno di loro era arrivato a formularle avendo alle spalle il percorso che egli aveva compiuto. Non si trattava di una differenza da poco, perché solo l'essere passato attraverso quel vero e proprio processo d'iniziazione che era rappresentato dall'adesione al marxismo (e che in lui aveva raggiunto un livello di tensione intellettuale assai raro), rafforzato per di più dalla militanza, comunista prima e nella sinistra eterodossa poi, consentì a Colletti di formulare una decostruzione del marxismo quale soltanto uno che ne aveva penetrato i più intimi segreti era in grado di fare, e sempre per le stesse ragioni gli fu anche possibile mettere a fuoco il nucleo dottrinario da cui erano potuti discendere sia il totalitarismo dei comunismi realizzati, sia lo spontaneismo e il settarismo dei gruppi extraparlamentari, spesso anticamera del terrorismo. Il suo percorso intellettuale e politico lo portò naturalmente in una rotta di collisione sempre più accentuata con il Pci, ma anche con quei vastissimi ambienti culturali in senso lato, tipici della realtà italiana, che non gli perdonarono mai le scelte compiute e ai quali lo stesso Colletti non perdonò mai, per parte sua, il conformismo e l'ipocrisia della doppia verità, quella dei salotti, dove si poteva ostentare dissacrazione e scetticismo, e quella per l'esterno (per l'operaio di Sesto S. Giovanni, come si diceva una volta tra i comunisti), dove continuò a imperare un ottimismo storicistico di maniera, che alternava eurocomunismo, compromesso storico, terze vie e unioni nazionali, quasi fino al diluvio destinato a spazzare via il Muro e quanto vi stava dietro. In questo scontro, gli strali di Colletti - che andava nel frattempo ritrovando nella filosofia della scienza alcuni, e naturalmente i meno pretenziosi, dei punti di riferimento metodologici che aveva perso nel marxismo, ma recuperava anche quella tradizione liberale anglosassone destinata a rivelarsi più consona alla sua sensibilità laica e scientifica - si rivolgevano non solo verso l'universo comunista, ma anche nei confronti di quella parte della Dc e della cultura cattolica integralista che fin dall'indomani del dopoguerra era stata incline al compromesso consociativo, più o meno storico, con il comunismo italiano e non solo. Si trattava di una battaglia di minoranza, nella quale l'incontro con il tentativo craxiano di rompere la 'tenaglia cattocomunista' (come allora si diceva) era per Colletti inevitabile, in particolare sui tre fronti decisivi per l'avvenire del paese: il superamento dello strapotere sindacale, condizione per un rilancio dell'economia; una grande riforma istituzionale, in grado di adeguare l'Italia al contesto europeo; il disgregamento dell'egemonia comunista sul mondo della cultura, premessa indispensabile per una sprovincializzazione del confronto intellettuale di casa nostra. Di queste tre battaglie, solo la prima e la terza diedero qualche risultato, mentre la seconda si arenò negli accordi del Caf e nella gestione dell'ordinaria amministrazione, perdendo un'occasione storica per il paese. Il 1989 avrebbe potuto riaprire la prospettiva del rinnovamento, ma i protagonisti erano ormai logori e Mani pulite ne fece tabula rasa, risparmiando soltanto i post-comunisti (ironia della sorte), ai quali si erano finalmente potuti unire senza più remore, in un abbraccio a lungo coltivato, i cattolici integralisti. Sembrava la fine della dialettica politica, sostituita da una sorta di pensiero unico all'italiana. Si trattava di una prospettiva che Colletti aveva combattuto per una vita e che lo vide quindi prendere nettamente posizione sul fronte avverso, incrociando la sua strada, questa volta, con la nascita di Forza Italia a opera di Silvio Berlusconi: una nascita che sembrò davvero il prodotto di un'astuzia della ragione per ristabilire le condizioni oggettive di un pluralismo politico. Inutile dire che anche in questo caso, come con Craxi, il rapporto di Colletti con Forza Italia non fu un 'matrimonio', per il quale non aveva più l'età né forse ha mai avuto la forma mentis, ma quella pragmatica, e spesso conflittuale, convivenza che caratterizza i rapporti maturi, nei quali prevale una vasta area di convergenza, ma dove si conserva anche una spiccata autonomia e indipendenza di giudizio: caratteristiche sempre presenti nel nostro, ma destinate, per forza di cose, ad accentuarsi negli ultimi anni della vita. E tuttavia, anche in questa accezione circoscritta e disincantata, non si trattò di un rapporto superficiale o di circostanza, perché chi legge i suoi ultimi scritti (saggi o articoli che siano) vi troverà un'adesione convinta all'ispirazione liberale: un'adesione, d'altra parte, che era il naturale punto d'arrivo di tutta la sua riflessione a partire dagli anni Ottanta. Naturalmente non era il liberalismo antropocentrico e permeato di ottimismo storico della sua gioventù, ma un liberalismo severo, segnato dal pessimismo e dalla consapevolezza dei limiti dell'agire umano, e tuttavia convinto dell'essenzialità delle proprie ragioni come condizioni minime per qualsiasi convivenza o progresso sociale. Tutto questo, peraltro, non esauriva l'ultimo Colletti, che cercava ormai prevalentemente nella storia e nei classici, in autori come Leopardi, Machiavelli o Lucrezio, interpreti senza sconto del disincanto, il sostegno quotidiano per alimentare quell'ironia che era diventata un suo tratto caratteristico, e senza la quale non è possibile convivere lucidamente con l'angoscia immanente alla condizione umana. Questa lucida convivenza, insieme alla peculiarità del suo percorso, fanno anche di lui, a suo modo, un 'classico'; un classico che ha segnato una stagione non qualunque della cultura italiana e che come tale merita di essere conservato nel bagaglio ideale degli spiriti liberi.

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