Hillman – Un terribile amore per la guerra
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"Non voglio marciare per la pace, né pregare per la pace, perché la pace falsifica tutto ciò che tocca. E’ una copertura, una iattura. O semplicemente una parola insulsa". E ancora: "Tregua, sì; cessate il fuoco, sì; resa, vittoria, mediazione, politica del rischio calcolato, stallo: queste parole hanno un contenuto, ma pace … la pace è buio che cala". Sono parole, queste, di certo poco politicamente corrette, ma pienamente rappresentative delle tesi esposte da James Hillman nel suo ultimo libro dedicato alla guerra e da poco pubblicato in Italia ("
Un terribile amore per la guerra", Adelphi, Milano 2005).Il filosofo e psicanalista americano è ormai da decenni una delle voci più interessanti di un pensiero anticonformista che non si adagia su presunte "verità" precostituite o su rimasticature d’annata, ma che, invece, vuole affrontare i problemi che il nostro tempo ci pone con coraggio intellettuale e spirito ribelle. Certo, non è detto che si debba sempre essere d’accordo con lui, ma le sane provocazioni di un pensiero forte come quello hillmaniano non sono fatte per essere supinamente accettate (come i dogmi imposti dalla pigrizia della cultura ufficiale), quanto, al contrario, per venire discusse al fine di produrre nuove sintesi.
Quasi ci aspettavamo, pertanto, un saggio di Hillman sulla natura del conflitto, perché eravamo sicuri che la quantità di pregiudizi su pace e guerra che in questi ultimi anni è provenuta dagli ambienti pacifisti avrebbe spinto il Nostro Autore a intervenire nel dibattito sull’argomento. Attenzione, però: non dobbiamo affrettatamente ritenere che i suoi pensieri sulla guerra ne siano un’esaltazione, del tipo della marinettiana "guerra sola igiene del mondo". Tutto ciò non sarebbe nient’altro che l’altra faccia della medaglia, di una medaglia che è in sé l’incomprensione del fenomeno ‘guerra’. Hillman, al contrario, sulla scorta dei suoi studi psicanalitici e, soprattutto, mitologici, vuole cogliere l’essenza del ‘bellum’ con gli attrezzi della psicologia degli archetipi, vuole comprendere "i miti, la filosofia e la teologia della psiche profonda della guerra". E, ricorrendo anche a Giovanbattista Vico, egli indica essere il mito la struttura fondamentale che ci consente di capire l’esistenza umana e il cosmo tutto.
I miti sono infatti, letteralmente, narrazioni e i loro protagonisti (dèi, semidèi o eroi) sono degli <<stili di esistenza>>: "i miti – sottolinea Hillman - ci mettono a disposizione modi archetipici di cogliere la condizione umana; rappresentano verità psicologiche". Sono, per dirla con il Sallustio autore dell’operetta "Sugli dèi e sul mondo" (pubblicata in italiano dalle edizioni di AR), cose che non avvennero mai, ma sono sempre. E, allora, per porsi nei confronti della guerra in un atteggiamento non di razionalistico rifiuto, ma di comprensiva e paziente accoglienza è necessario accostarsi con rispetto e riverenza al dio che la simboleggia, e cioè a Marte, l’Ares greco. Non per negarlo e cancellarlo, ma per comprenderlo e, comprendendolo, riuscire a gestire e <<curare>> la guerra stessa. Perché il dio è sempre presente, facendo parte dell’ordine stesso del mondo. Come aveva d’altronde detto uno dei maggiori filosofi dell’antichità, quell’altero e sprezzante Eraclito – l’aristocratico Eraclito … - il quale in un suo notissimo frammento affermò che la guerra (polemos, in greco) è madre di tutte le cose e di tutte le cose re. E ha confermato il filosofo contemporaneo Lévinas, quando ha scritto che "… l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra". Il conflitto viene quindi a configurarsi come la norma dell’esistenza, come ciò senza il quale nulla sarebbe, nemmeno la pace. La pace dipende dalla guerra, non viceversa, ed è più realistica – e più incombente – della pace. Inoltre, rileva Hillman, "la guerra è permanente, non irrompente; necessaria, non contingente". Sì, la guerra è necessaria, in quanto è iscritta nell’ordine stesso della vita, ed essa è la norma a cui tutto il resto deve conformarsi: "La guerra appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo" ed essa "rimarrà finché gli stessi dèi non se ne andranno".
Ma la guerra, si dirà, è anche inumana. E’ sangue, violenza insensata, stupri, mutilazioni, sofferenza al di là d’ogni limite. Certamente, tuttavia tale inumanità – o, meglio, tali conseguenze della sua inumanità – deve essere meglio intesa come ‘trascendenza’, come irriducibilità della guerra stessa alla comprensione di un’umanità troppo umana, troppo logica e razionale. La sua inumanità deriva dal suo essere un archetipo che è prima e oltre l’uomo. E nei confronti della guerra l’uomo deve allora far leva sulla sua immaginazione e sul suo pensiero profondo per comprenderla. Deve porsi di fronte ad essa come un’azione mitica, perché la guerra si compone prima di tutto di comportamenti archetipici, che fondano la sua irriducibile autonomia, il suo essere fuori dal controllo dell’uomo stesso. Pertanto, l’atteggiamento di reverenza nei confronti del ‘bellum’ non ha, naturalmente, il fine di esaltarne i tratti inumani, quanto, al contrario, di penetrarlo e di ‘addomesticarlo’. Penetrare, cioè, sino in fondo nella guerra intesa come archetipo atemporale che connota, lo si voglia o no, non solo la nostra esistenza, ma tutto il cosmo. Qui ci soccorre l’antico politeismo greco e latino – le nostre radici classiche troppo spesso dimenticate o imbalsamate … - che ci offre l’immagine del dio Ares/Marte, il dio che rappresenta "la personificazione mitologica della forza archetipica della guerra". Ed è conoscendolo che possiamo trovare sollievo da lui, dalla sua incontrollata violenza.
Ma come possiamo conoscere il dio ? Hillmann ci propone un’acuta e affascinante lettura dell’Inno ad Ares , uno degli antichi Inni omerici. Una lettura che, fuori da polverose interpretazioni erudite, ci consente di cogliere l’essenza stessa del dio e di insegnarci molte cose sulla guerra. Prima fra tutte che, in quanto Ares è ‘guardiano della città’, ogni civiltà si costruisce sullo spirito marziale e sulla guerra. Affermazione, questa, che a qualche pacifista poco incline ad ascoltare potrà apparire orripilante, ma che, al contrario, è del tutto comprensibile se si tien mente che "la guerra difende la civiltà, ma non per il fatto che una guerra sia dichiarata giusta o sia giustificata" quanto "perché l’entrata in guerra e la condotta della guerra mantengono vive le virtù della rettitudine" sulle quali si fonda ogni civiltà. La guerra non come fine, quindi, ma come mezzo per riaffermare in modo forte l’altruismo, l’amore, l’eticità in senso lato: "E’ là, nel fango sotto il fuoco nemico, che divento una persona supremamente etica. Divento altruista nella mia essenza, non in quanto obbedisco al comandamento di amare, bensì per l’ontologia della guerra, perché la guerra si rivela come l’essere stesso", in quanto il soldato non può più eludere alcuna responsabilità nei confronti di se stesso e degli altri. E’ in questo modo che "Il combattimento – conclude Hillman – diventa il paradigma dell’eticità, dell’altruismo, dell’amore".
La guerra diviene pertanto il modello della concretezza reale della vita che si oppone ad ogni astrattismo buonista, fondamento tragico ma veritiero della condizione umana, aspetto inumano ma ineludibile del nostro essere nel e del mondo. Il suo opposto, la pace, non possiede alcuna reale consistenza ontologica. E’ buio che cala: nient’altro che la notte del nichilismo.
Francesco Demattè
Pubblicato su "L’Indipendente" il 16 aprile 2005