ANTICIPAZIONI/ Esce "Il coreggio di scegliere"
il nuovo libro di Savater
Se vivere è un'arte
di FERNANDO SAVATER
tratto da repubblica.it
Fernando Savater |
La seconda si occupa delle necessità e degli impegni che implica il
riconoscimento dell'umanità dei nostri simili perché essi, in debita
reciprocità simbolica, confermino a loro volta la nostra, e riceve il nome di
etica. Ritengo che tutte le azioni che compiamo possano essere considerate da
una di queste due prospettive "artistiche", e gran parte di esse da
entrambe...
Come qualunque altra arte, quella di vivere consiste nel discernere fra le
diverse modalità di agire e nell'attribuire loro un valore. In vista della
finalità che si persegue, le cose possono essere fatte bene, normalmente o
male; si possono anche non fare, e questo a sua volta sarà valutato
positivamente o negativamente a seconda dei casi. L'arte stabilisce sul suo
terreno un'assiologia (che cos'è bene e che cos'è male, ciò che è meglio e
ciò che è peggio, ciò che va bene e ciò che non va bene) e una deontologia
(ciò che si deve fare secondo le circostanze e come si deve fare). In vista
della natura dei suoi obiettivi pratici, riconosce valori e configura norme.
Ma va nel contempo ricordato che ogni arte resta aperta per quel che riguarda
la punta estrema della sua eccellenza, sicché l'evoluzione storica dei suoi
strumenti e l'eventuale comparsa di interpreti straordinariamente originali
dei suoi fini possono sovvertire, almeno in parte, i modelli che sembravano
maggiormente radicati. Pertanto, vi è sempre in ogni arte una certa tensione
dialettica e dinamica fra ciò che è stabilito e ciò che è innovativo, così
come, soprattutto, fra i valori considerati in modo astratto, generale, e la
loro applicazione concreta corrispondente al qui e ora in cui ogni azione
viene compiuta.
Soprattutto, l'arte di vivere, per l'enorme gamma di azioni che comprende, e
anche per il carattere particolarmente controverso dei suoi obiettivi, non
potrà mai essere codificata in maniera esaustiva e immutabile... malgrado la
profusione di sforzi che, con opprimente insistenza, vengono prodigati in
questa direzione sin dai tempi di Hammurabi.
A tale riguardo, dopo il lungo percorso dei comandamenti inappellabili e degli
imperativi categorici di cui abbiamo goduto nel corso della storia, è un
sollievo poter ricordare anche le incertezze e le cautele di Aristotele,
all'inizio di un testo fondante, il cui rigore realistico difficilmente
conservato qualche parentela con il relativismo postmoderno: "Che si
debba agire in conformità alla retta ragione è ammesso da tutti, e lo si dia
per stabilito... Si ammetta, poi, preventivamente questo: che tutto il
discorso sulla prassi deve essere sviluppato a grandi linee e senza
precisione, come abbiamo detto anche all'inizio, quando abbiamo affermato che
bisogna attendersi discorsi conformi alla materia trattata; ciò che rientra
nel campo della prassi e dell'utile non ha nulla di stabile, come non lo ha
nemmeno ciò che rientra nel campo della medicina.
E se i discorsi in universale hanno queste caratteristiche, il discorso sui
casi singoli mancherà anche più di precisione, infatti il discorso sul caso
singolo non rientra in nessuna arte né in alcuna serie di precetti, ma è
necessario, sempre, che chi agisce prenda in esame ciò che riguarda
l'occasione presente, proprio come si dà nel caso della medicina e dell'arte
del pilota". (Etica nicomachea).
In queste ultime righe è detta la cosa più importante: nel momento della
singola azione qui e ora, è colui che agisce che deve decidere ciò che è più
conveniente in ogni occasione concreta, senza potersi limitare ad applicare
meccanicamente precetti o regole. I modelli dell'arte di vivere, come quelli
di qualunque arte, forniscono uno schema orientativo e valutativo che,
tuttavia, non potrà mai sostituire la proairesis del soggetto né, per così
dire, il "tocco personale" con cui questo affronta, in quel preciso
istante, l'irripetibile e fragile singolarità della sua esistenza.
Non esiste una scienza del vivere, definita da assiomi e leggi universalmente
valide che possano essere applicate con lo stesso risultato nell'ambito
protetto e sperimentale del laboratorio e per la strada o nella giungla, bensì
un'arte in cui si giustappongono tradizioni memorabili, frammenti di antichi
codici, regole pratiche di comportamento e la disperata ispirazione della
speranza, un'arte a partire dalla quale o contro la quale l'individuo opera
quando giunge il momento.
Per dirla con altre parole, sospesi sul filo delle nostre acrobazie senza rete
o in balia del mare traditore in cui cerchiamo di mantenerci a galla, ci
vengono in soccorso l'esperienza accumulata e il ricordo dei maestri migliori,
ma continuiamo a dipendere dal nostro buon senso, perché siamo soli.
E' sotto il peso di questo impegno che dobbiamo gestire o subire i grandi
termini di valutazione. Il Bene il Male, i più antichi e sempiterni fantasmi
teologici! Ciò che vale sempre e ciò che non vale mai! A mio giudizio,
l'inizio fondamentale dell'arte di vivere sta nel saper prescindere dall'aiuto
traditore di tali stampelle. Il che non comporta che si rinunci a dare
valutazioni, sprofondando nello scoramento del "va bene tutto" o del
"non va bene niente", ma permette - ed esige! - di imparare a dare
valutazioni... Per cominciare, bisogna capire che i due estremi opposti della
bilancia assiologica, il Bene e il Male, non servono affatto alla ragione né
al cuore, se vengono utilizzati in termini assoluti: hanno senso e utilità
concettuale solo quando funzionano in rapporto a qualcosa.
(...) In altre parole, anziché Bene e Male, preferiremmo dire "bene
per... " e "male per... ", come ci insegnò il nostro padre
Spinoza. Se ci è consentito, diremo che in effetti tutte le cose sono in
parte buone, per il semplice fatto che sono e dunque partecipano del bene più
comune e primario, il fatto di appartenere alla realtà. Poiché non tutto ciò
che è concepibile è effettivamente reale, il vantaggio fondamentale di cui
conviene godere per meritarsene qualunque altro è la realtà.
Nei suoi suggestivi Essais sur Homère, Marcel Conche fa notare come il bardo
greco utilizzi spesso l'aggettivo "divino" per denominare qualunque
cosa presente e vigente: "divine bevande", "fiumi divini",
"divina città", "divini destrieri", e chiama
"divino" perfino il mostro Cariddi e via dicendo. Con ciò non
pretende di indicare alcun vincolo speciale di quanto così qualificato con le
divinità e neppure di esaltarlo in maniera particolare, bensì vuole soltanto
sottolineare che esso è lì, a portata di mano o di vista, che partecipa di
ciò che esiste; e che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere,
esiste divinamente?
(...) Scartata l'enfasi assolutista, restano il bene e il male a seconda di
che cosa (o di chi) e a seconda di quale scopo (o per chi). Una stessa cosa può
essere cattiva per taluni e buona per altri. (...) Ogni essere esistente si
dibatte continuamente fra cose valide che generano effetti collaterali
negativi e cose fondamentalmente pregiudizievoli per lui ma che possono anche
offrirgli occasionalmente qualche beneficio; prima o poi, poiché ciò che è
risulta infimo a confronto delle forze che operano nell'immensa palestra che
costituisce l'universo, si imbatterà con qualcosa di così direttamente
"cattivo" - così incompatibile con il suo modo di essere - che ne
morirà. E da tale distruzione deriverà qualcosa di "buono" per
un'altra entità non meno contingente...
Per ricercare ciò che è vantaggioso ed evitare, nei limiti del possibile, i
mali che li minacciano, gli animali contano sui loro istinti. Così, sono
sovraccarichi di linee di comportamento fisse, ma si risparmiano molte
perplessità. Dal canto nostro, noi uomini tentiamo di sviluppare un'arte di
vivere che orienti le scelte continue e le innovazioni pericolosamente
frequenti del nostro agire deliberato.
La vita che cerchiamo di conservare e di perpetuare non è un mero processo
biologico, ma un divenire di simboli che s'intrecciano sotto forma di memoria,
di comunità, di codici, di visioni di futuro, di preoccupazione di cogliere
il senso di ogni gesto e di ogni inciampo.