ANTICIPAZIONI/ Esce "Il coreggio di scegliere"  il nuovo libro di Savater
 Se vivere è un'arte
  di FERNANDO SAVATER 
tratto da repubblica.it

Fernando Savater

 
Di Fernando Savater esce in questi giorni "Il coraggio di scegliere" (sottotitolo, "Riflessioni sulla libertà", Laterza, pagg. 162, euro 15). Ne pubblichiamo alcune pagine.

Possiamo dire che esiste un'"arte di vivere"? Resta inteso che consideriamo "arte" l'abilità in un determinato ambito pratico, i cui principi generali di base possono essere appresi (e pertanto insegnati), ma che ai più alti livelli di eccellenza manca di regole precise e può essere ammirata solo in certi individui eminenti. "Arte" è, dunque, quella capacità che, una volta appresa, non si può tuttavia dominare completamente e ammette gradazioni molto diverse nella compiutezza e nello stile personale con cui viene esercitata: per questo, sorbire la zuppa con il cucchiaio o accendere gli interruttori della luce non è arte, mentre lo è raccontare storie, ballare il tango o truffare i turisti.

Ne segue, dunque, che l'arte di vivere, ammesso che esista, potrà essere in parte appresa (l'educazione, in tutte le epoche e a tutte le latitudini, si occupa fondamentalmente di questo), ma darà i suoi frutti migliori solo in determinati modelli personali particolarmente fortunati, i cui comportamenti diventeranno in seguito "classici" (vale a dire, degni di essere studiati in classe come esempi da imitare).

In questo tipo di arte, si possono indicare due componenti strettamente collegate, secondo i due livelli o prospettive del vivere umano. La prima verte sul mantenimento, la fruizione e la riparazione del nostro organismo, cosa che gli antichi conoscevano come cura sui, o cura di sé (su cui ha scritto pagine molto interessanti l'ultimo Michel Foucault) e che noi potremmo denominare igiene.

La seconda si occupa delle necessità e degli impegni che implica il riconoscimento dell'umanità dei nostri simili perché essi, in debita reciprocità simbolica, confermino a loro volta la nostra, e riceve il nome di etica. Ritengo che tutte le azioni che compiamo possano essere considerate da una di queste due prospettive "artistiche", e gran parte di esse da entrambe...

Come qualunque altra arte, quella di vivere consiste nel discernere fra le diverse modalità di agire e nell'attribuire loro un valore. In vista della finalità che si persegue, le cose possono essere fatte bene, normalmente o male; si possono anche non fare, e questo a sua volta sarà valutato positivamente o negativamente a seconda dei casi. L'arte stabilisce sul suo terreno un'assiologia (che cos'è bene e che cos'è male, ciò che è meglio e ciò che è peggio, ciò che va bene e ciò che non va bene) e una deontologia (ciò che si deve fare secondo le circostanze e come si deve fare). In vista della natura dei suoi obiettivi pratici, riconosce valori e configura norme.

Ma va nel contempo ricordato che ogni arte resta aperta per quel che riguarda la punta estrema della sua eccellenza, sicché l'evoluzione storica dei suoi strumenti e l'eventuale comparsa di interpreti straordinariamente originali dei suoi fini possono sovvertire, almeno in parte, i modelli che sembravano maggiormente radicati. Pertanto, vi è sempre in ogni arte una certa tensione dialettica e dinamica fra ciò che è stabilito e ciò che è innovativo, così come, soprattutto, fra i valori considerati in modo astratto, generale, e la loro applicazione concreta corrispondente al qui e ora in cui ogni azione viene compiuta.

Soprattutto, l'arte di vivere, per l'enorme gamma di azioni che comprende, e anche per il carattere particolarmente controverso dei suoi obiettivi, non potrà mai essere codificata in maniera esaustiva e immutabile... malgrado la profusione di sforzi che, con opprimente insistenza, vengono prodigati in questa direzione sin dai tempi di Hammurabi.

A tale riguardo, dopo il lungo percorso dei comandamenti inappellabili e degli imperativi categorici di cui abbiamo goduto nel corso della storia, è un sollievo poter ricordare anche le incertezze e le cautele di Aristotele, all'inizio di un testo fondante, il cui rigore realistico difficilmente conservato qualche parentela con il relativismo postmoderno: "Che si debba agire in conformità alla retta ragione è ammesso da tutti, e lo si dia per stabilito... Si ammetta, poi, preventivamente questo: che tutto il discorso sulla prassi deve essere sviluppato a grandi linee e senza precisione, come abbiamo detto anche all'inizio, quando abbiamo affermato che bisogna attendersi discorsi conformi alla materia trattata; ciò che rientra nel campo della prassi e dell'utile non ha nulla di stabile, come non lo ha nemmeno ciò che rientra nel campo della medicina.

E se i discorsi in universale hanno queste caratteristiche, il discorso sui casi singoli mancherà anche più di precisione, infatti il discorso sul caso singolo non rientra in nessuna arte né in alcuna serie di precetti, ma è necessario, sempre, che chi agisce prenda in esame ciò che riguarda l'occasione presente, proprio come si dà nel caso della medicina e dell'arte del pilota". (Etica nicomachea).

In queste ultime righe è detta la cosa più importante: nel momento della singola azione qui e ora, è colui che agisce che deve decidere ciò che è più conveniente in ogni occasione concreta, senza potersi limitare ad applicare meccanicamente precetti o regole. I modelli dell'arte di vivere, come quelli di qualunque arte, forniscono uno schema orientativo e valutativo che, tuttavia, non potrà mai sostituire la proairesis del soggetto né, per così dire, il "tocco personale" con cui questo affronta, in quel preciso istante, l'irripetibile e fragile singolarità della sua esistenza.

Non esiste una scienza del vivere, definita da assiomi e leggi universalmente valide che possano essere applicate con lo stesso risultato nell'ambito protetto e sperimentale del laboratorio e per la strada o nella giungla, bensì un'arte in cui si giustappongono tradizioni memorabili, frammenti di antichi codici, regole pratiche di comportamento e la disperata ispirazione della speranza, un'arte a partire dalla quale o contro la quale l'individuo opera quando giunge il momento.

Per dirla con altre parole, sospesi sul filo delle nostre acrobazie senza rete o in balia del mare traditore in cui cerchiamo di mantenerci a galla, ci vengono in soccorso l'esperienza accumulata e il ricordo dei maestri migliori, ma continuiamo a dipendere dal nostro buon senso, perché siamo soli.

E' sotto il peso di questo impegno che dobbiamo gestire o subire i grandi termini di valutazione. Il Bene il Male, i più antichi e sempiterni fantasmi teologici! Ciò che vale sempre e ciò che non vale mai! A mio giudizio, l'inizio fondamentale dell'arte di vivere sta nel saper prescindere dall'aiuto traditore di tali stampelle. Il che non comporta che si rinunci a dare valutazioni, sprofondando nello scoramento del "va bene tutto" o del "non va bene niente", ma permette - ed esige! - di imparare a dare valutazioni... Per cominciare, bisogna capire che i due estremi opposti della bilancia assiologica, il Bene e il Male, non servono affatto alla ragione né al cuore, se vengono utilizzati in termini assoluti: hanno senso e utilità concettuale solo quando funzionano in rapporto a qualcosa.

(...) In altre parole, anziché Bene e Male, preferiremmo dire "bene per... " e "male per... ", come ci insegnò il nostro padre Spinoza. Se ci è consentito, diremo che in effetti tutte le cose sono in parte buone, per il semplice fatto che sono e dunque partecipano del bene più comune e primario, il fatto di appartenere alla realtà. Poiché non tutto ciò che è concepibile è effettivamente reale, il vantaggio fondamentale di cui conviene godere per meritarsene qualunque altro è la realtà.

Nei suoi suggestivi Essais sur Homère, Marcel Conche fa notare come il bardo greco utilizzi spesso l'aggettivo "divino" per denominare qualunque cosa presente e vigente: "divine bevande", "fiumi divini", "divina città", "divini destrieri", e chiama "divino" perfino il mostro Cariddi e via dicendo. Con ciò non pretende di indicare alcun vincolo speciale di quanto così qualificato con le divinità e neppure di esaltarlo in maniera particolare, bensì vuole soltanto sottolineare che esso è lì, a portata di mano o di vista, che partecipa di ciò che esiste; e che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, esiste divinamente?

(...) Scartata l'enfasi assolutista, restano il bene e il male a seconda di che cosa (o di chi) e a seconda di quale scopo (o per chi). Una stessa cosa può essere cattiva per taluni e buona per altri. (...) Ogni essere esistente si dibatte continuamente fra cose valide che generano effetti collaterali negativi e cose fondamentalmente pregiudizievoli per lui ma che possono anche offrirgli occasionalmente qualche beneficio; prima o poi, poiché ciò che è risulta infimo a confronto delle forze che operano nell'immensa palestra che costituisce l'universo, si imbatterà con qualcosa di così direttamente "cattivo" - così incompatibile con il suo modo di essere - che ne morirà. E da tale distruzione deriverà qualcosa di "buono" per un'altra entità non meno contingente...

Per ricercare ciò che è vantaggioso ed evitare, nei limiti del possibile, i mali che li minacciano, gli animali contano sui loro istinti. Così, sono sovraccarichi di linee di comportamento fisse, ma si risparmiano molte perplessità. Dal canto nostro, noi uomini tentiamo di sviluppare un'arte di vivere che orienti le scelte continue e le innovazioni pericolosamente frequenti del nostro agire deliberato.

 La vita che cerchiamo di conservare e di perpetuare non è un mero processo biologico, ma un divenire di simboli che s'intrecciano sotto forma di memoria, di comunità, di codici, di visioni di futuro, di preoccupazione di cogliere il senso di ogni gesto e di ogni inciampo.
 

( 21 settembre 2004 )