Devozioni musicali per vecchi fan

PREFAZIONE
di Enrico Capodaglio

La voce fanciulla della mente

L’arte della memoria oggi si è molto sofisticata: guardiamo un film degli anni ’60 e, molto più della trama o di un nodo di sentimenti, nel colore storico del cielo, ci emoziona un modo perduto di accavallare le gambe, il taglio di un abito, come un’attrice china gli occhi o come la sua mano flirta con la sigaretta. Il tempo, nella fiala magica di un film, esala dopo decenni il suo fascino atmosferico e puntuale.

Ma, più delle immagini, le canzoni di una volta, come embrioni in trance, ci danno il non so che misteriosamente esatto di un desiderio, di una speranza, di un amore della gioventù. Sono lampi, profumi, timbri impalpabili, nascosti una volta e per sempre nelle pieghe sonore di un Lied o nella caccia al tesoro di una jam-session, ovunque e in nessun luogo, nella più evanescente delle arti.

Gian Citton, poeta pieno di grazia e dignità, con la sua cultura ricca e vibrante e il candido dei suoi occhi azzurri, si avventura a captare e rilanciare nei versi la lingua ingovernabile della musica, col viatico proustiano della piccola frase nella sonata di Vinteuil.

Poetare sotto l’effetto della musica, infatti, è mai possibile senza eseguirla in versi, senza ricantarla? In un dettato chiaro di significanti, nella sintassi distesa, nel ritmo degli endecasillabi leggeri, Citton rinuncia con sollievo al senso ultimo e alla chiusa, perché nella musica, specie in quella classica, e cosiddetta strumentale, la sostanza è vaporizzata, sempre mobile e galleggiante in verità che svaniscono nell’atto di apparire. È vero che gli strumenti in realtà sono voci, che dentro un pianoforte canta un uomo, ma chi potrà mai tradurre in parole il flavour di Des Abends di Schumann? Né è più facile con Ich binn von Kopf bis Fuss di Marlene Dietrich, dove un testo c’è, ma le sensazioni sguizzano dalla rete letterale come anguille.

Così Gian Citton, nelle sue Devozioni musicali, vive l’opera come ritratto spirituale degli autori e degli esecutori, da Mahler ad Ella Fitzgerald, da Beethoven a Ben Webster, giacché compositori classici e cantanti blues, musicisti jazz e melodisti pop consuonano in un ponte limbico tra aldiquà e aldilà. Il poeta ne traccia biografie vertiginose, cogliendoli spesso nella dissonanza del dolore e della malattia. Da Beethoven, tra sordità e cirrosi, a Frank Sinatra, nella deriva del crooner glorioso, a Ella Fitzgerald, affetta dal diabete, votata a una "dolcezza a morte", la quale si trasforma infine in un "corpo celeste di cometa". Giacché il canto è ciò che più buca la morte, ciò che più di un corpo sopravvive. La voce di Billie Holiday è come di rondine neonata nella "flebile paura della notte", Louis Armstrong ha tutto il tramonto di un’epoca dentro il suo timbro caldo e profondo. Un pezzo musicale è l’urna di un’anima scottante quanto una lampada di Aladino, che sprigiona il genio crudo e amoroso della vita, come in Keith Jarrett che "muore" sulla tastiera "appagata d’amore".

Le canzoni possono risvegliare traumi remoti, pensando a quelle di Marlene Dietrich, con "la peluria bionda alle ascelle" come "l’orgia dei manichini" nazisti, e far riaccadere lo choc della madre del poeta deportata nel 1944. O far riassaporare la riapertura d’avvenire del dopoguerra, col Modern Jazz Quartet e lo swing di Ben Webster. Oppure risvegliare addirittura le minime percezioni del neonato, avendo Diana Krall e Barbara Streisand per balie fantasmatiche.

C’è nel poeta un’attrazione per le malinconie generose (Chopin), una preferenza per i temi intimi e patetici, comunque notturni, dalla "tarda musica ombrosa" di Brahms, nelle Sette fantasie op. 116, alla Bessie Smith di In the house blues. Con modi che vanno dalla commozione allo humour agrodolce, dalla commemorazione laica dell’angoscia a teneri referti corporali. È una presa di vita papillare, tattile e, naturalmente, acustica, celebrata col disco di bachelite cosparso di talco e poi nettato, in un rito d’ingresso nei misteri orfici del suono.

Così in queste poesie ispirate prima di tutto valgono le sinestesie esistenziali, sempre però attraverso quelle sensoriali, se il freddo di una volta, quando "fiorivano gigli dagli inverni", ci dà un brivido oggi, ascoltando Schubert. Il quale non aveva un pianoforte suo, e Gian se lo immagina mentre lo puntava nelle case degli amici, improvvisando un Lied col "gelo nelle reni". Oppure contano le simpatie sonore (‘il carillon della pioggia’) e visive, quando lo sfregare in cerchio delle spazzole ti fa vedere una gorgiera di spume (M J Q), e un minuetto non evoca, ma dipinge, lo zampettio di passeri (Brahms).

Amorosa nostalgia ritmica e violenza dei rumori: c’è un continuo discanto in queste Devozioni, tra estasi melodiche e ronzii di mosche, gorgoglii e scrocchi di denti, soffi e raschi; tra canto e catarro, tra dolcezza del tempo ritrovato e urla, di morte o di parto. La musica vocale di Citton vive infatti di un’armonia in allarme, di una timidezza ardita, mentre l’urlo è felpato dalla sordina stoica degli anni, come per il Miles Davis in East coast al Blackhawk restaurant:

quando il labbro tocca il limite dell’urlo
come d’un feto espulso da vagina,
ma lo strozza (al Blackhawk) entro l’imbuto
della tromba il parabocca della sordina.

Il canto della donna, inutile negarlo, è il culmine erotico e mistico di questa stregoneria del tempo musicato, come in Blossom Dearie:

Per come dice quel che dice
al buio
la falena lunescente
parrebbe inconfessabile indecenza
desiderarne il corpo della voce
(desiderala corpo quella voce).

Se nei versi amarognoli spira il disincanto di chi sa la materia dei sogni, nella sensualità venturosa, sparsa su tutto, e nel brillio di una sincerità irriverente, il cuore è ancora fanciullo. L’eros della gola che canta, anima fatta voce, non è, nel melomane maturo, meno vivo che nel ragazzo. Lampeggia felicemente a sorpresa, nel suo "corale amore del passato."

Enrico Capodaglio

 

Gian Citton

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