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Letteratura | Poesia bellunese | |
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Paola Bettiol
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Prefazione di Francesco Piero Franchi |
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La poesia, come ogni arte, è un diritto connesso alla persona di intelligente sensibilità, ma la sua scoperta e fruizione non sono cose gratuite: sia in veste di lettore, che in veste di autore, chi pratica la poesia deve accettare di pagare un prezzo (oltre quello dovuto all’acquisizione di competenze tecniche). Come la vita, anche l’arte costa: ogni segno tracciato su carta, tela, pentagramma, o inciso su pietra e bronzo, oltre a essere fatica fisica e intellettuale, proclama una durata nel tempo e nello spazio: una durata propria, in quanto segno decifrabile da altri, e una durata delle motivazioni che hanno portato alla sua produzione. I segni dell’arte, anche nelle forme più consolatorie, più dolci, più inebrianti o gentili, sono condizionati da questa durata; si scrive per essere letti, si compone per essere ascoltati, si dipinge o si danza o si scolpisce per essere visti, funzioni che possono essere adempiute solo nella durata, nello spazio e nel tempo, con le limitazioni dovute alla sensorialità e alla decifrabilità. Ma il senso (cioè il costo) è fuori dallo spazio-tempo, è eternamente presente, è senza limiti spaziali: la poesia, come ogni arte, si produce solo pagandola in termini di dolore, di fatica, di angosciato timore, poiché ogni gesto estetico rivela senza equivoci l’imperfezione della quotidianità, la limitatezza della felicità, la precarietà di sicurezza e serenità, la contraddizione tra il sapersi vivo e dover temere la morte, il sapersi amato o amante e dover temere l’oblio o l’indifferenza, il sapersi bravo e consapevole e fraterno e dover temere la solitudine, il disprezzo, la violenza. Questa frizione tra essere potenziale ed essere fattuale è una radice primaria dell’aspirazione all’arte. Questa premessa dichiara che Paola frequenta l’arte (nel suo caso, oltre la poesia, anche la pittura e la musica) per una mozione innanzitutto di dover-essere, di debito verso il proprio karma; e perciò accetta di pagarne il prezzo, in termini di affaticata nostalgia per le potenzialità del passato, e di paziente accoglimento per le controverse sofferenze del presente; non scrive perché è addolorata, (e chi mai, tra gli esseri viventi e intellettivi non lo è, viste le condizioni oggettive del cosmo?) ma scrivendo costruisce le forme intelleggibili del dolore, limitandone l’autorità sulla nostra vita, il che è dovere primario dell’artista: non la consolazione (che è cosa da balie o sacerdoti), ma la comprensione (che è cosa da scienziati e intellettuali). Per quanto riguarda la redenzione, a cui pure il sistema simbolico dell’arte può rendere qualche servigio, ciascuno segua i suoi angeli, i suoi dèmoni e i suoi profeti. Sono dunque liriche essenziali, costruite per assiomi e sintagmi molto scarni, scelta stilistica dovuta non solo all’innato perfezionismo dell’autrice, ma anche alla sua disciplina intellettuale e alle sue molte e buone letture (effetto anche di buone scuole). Ci sono tuttavia elementi stilistici connaturati alle passioni primarie dell’autrice, e alle sue memorie: in una metrica più di simmetrie tra nero e bianco sullo spazio della pagina che di rime o isosillabismi, o con rime e ritmi più del parlato che dello scandito, c’è la scelta costante di una aggettivazione attenuata, più a suo agio nell’indefinito, nel delicato, nel fragile, nello smarrito, che nel tranciato, nel vigoroso; un sottovoce, un pianissimo molto coerente anche in situazioni diverse. C’è la pratica cerimoniale dell’haiku senza che se ne segua la rigorosa teoria: a partire da un cosmo interamente femminile, privato, a volte quasi claustrale, si fanno entrare minime schegge di paesaggio diurno e notturno in una specie di basso continuo che allude costantemente a una lontananza, o assenza, o solitudine, o irrisolta potenzialità; con una certa levità l’autrice definisce "irrilevanti imprecisioni" gli amori, i discorsi, i ricordi; ed esalta l’eccezionalità di una "giornata normale" ("Felice/ Perché non accade nulla/ Nulla di buono/ Nulla di cattivo") come se dovesse vivere in perenne e silenzioso equilibrio tra doveri intellettuali e faccende domestiche, mentre la chiave del discorso è una ininterrotta nostalgia di un poter-essere intuito ma non conosciuto ("i giorni di una vita/ che non so ancora di chi è stata", "altrove è la mia vita"). Tuttavia, in una matura consapevolezza del limite oggettivo, e delle sue possibili aperture dietro lo sforzo costante, appare anche una specie di serenità, la coscienza quasi orgogliosa di una propria personale forza, oltre che di un destino singolare, anche se (e questo è il prezzo di cui si diceva all’inizio) "la coscienza del dolore/ brucia più del dolore". È dunque un diario poetico, composto di 99 liriche di sobrio linguaggio, un libro d’ore molto laico, e anche molto determinato, soprattutto in faccia all’indefinito, all’inconcluso, all’inespresso che paiono esserne le radici di ispirazione, e che non vengono rinnegate, o nascoste, neanche quando si cerca la solidarietà dell’altro, nel dono massimo delle parole, "parole silenti/ tra sperimentate/ complicità".
Belluno, ottobre 2006 Francesco Piero Franchi |