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194669

FACCHIN ERNESTINA 

L'erica

 

 

E’ sempre bello, a prescindere da ogni giudizio critico, vedere la pubblicazione di un libro di poesie. Se da sempre è noto il motto che "litterae non dant panem", questo è tanto più vero oggi in un mondo in cui tutto si vende e tutto si compra e quasi mai "poesia" rima con "economia". Anche le tanto diffuse forme di "scrittura creativa" soddisfano più coloro che le insegnano che quelli che spesso si illudono di trarne migliori esiti artistici. E’ quindi una gioia assistere alla comparsa di questa terza raccolta di versi di Ernestina Facchin.

 

La prima, del 1995, composta da una novantina di liriche con il titolo generico di "Poesie", costituiva la silloge, non cronologica, di un’esperienza di circa un ventennio e pur presentando composizioni di indubbia efficacia ed i nuclei fondamentali della sua ispirazione, non permetteva di cogliere l’evoluzione non soltanto stilistica, ma anche spirituale della sua poesia.

La seconda pubblicazione, del 1999, raccoglie una sessantina di composizioni, anch’esse non datate, ma riferite ad un quadriennio, in cui il titolo, "Fiore di stecco" è fortemente emblematico di tutta la sua produzione, del prima e del dopo.

Questa terza raccolta, dal titolo "L’erica", comprende oltre cento liriche cronologicamente disposte. Non si tratta di tutta la produzione, ben più ampia, di questi sette anni, ma di una scelta di poesie fatta dall’autrice tra quelle ritenute più significative o comunque emotivamente più coinvolgenti e più amate. Anche se la datazione non fa emergere grandi scarti dal punto di vista lessicale e stilistico rispetto alla precedente, la raccolta permette di cogliere un cambiamento impercettibile, ma continuo, nell’approccio con sè e con il mondo. I temi e gli stessi titoli delle poesie sono spesso quelli delle precedenti.

 

Il mondo della natura è sempre determinante ed è quel mondo in cui la poetessa trascorre le sue giornate, cogliendone i momenti più comuni e le continue variazioni: il fluire delle stagioni, le magie del firmamento notturno, lo schiudersi della vita, il volo delle farfalle, il fascino di un fiore o di una goccia di rugiada, il colore di una mela, il mistero degli occhi di un gatto. Ma si ha la sensazione che questa natura tanto corteggiata ed amata fino a diventare mito, sia solo un pretesto. La descrizione non è mai fine a se stessa: la natura è metafora della vita con le piccole gioie, ma soprattutto con i suoi dolori, con le titubanze e le incertezze; per dirla con Sartre, con la sua angoscia. Ed è per questo che le liriche sono costellate, anche nei momenti più sereni, di punti interrogativi ed il tono diventa colloquiale alla ricerca di certezze e risposte che non arrivano.

Rispetto alla raccolta precedente la tristezza si fa più accentuata e insistente, il pessimismo più forte, la disillusione più amara. Eppure, pur di fronte all’età che avanza (Ho già le stesse rughe / di mio padre), al senso della fine (Se accetto di morire / mi ridarai, / Signore; / il mio volto / di bambina?) nell’ultima poesia L’erica, che dà il nome alla raccolta, tutto sembra rasserenarsi in un abbraccio panteistico con la natura (Nessuno la vide / appassire: / erano scesi gli dei / a cogliere / i suoi fiori).

 

Gianluigi dal Molin