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Fulcio Bortot
Le terre del Conte
Campedel, Belluno 2006,

Nota dell’autore

Poco più che fanciullo fui costretto a lasciare la mia casa natale ed il mio Eden per andare a vivere nella "civiltà".

Fu il mio primo trauma.

Durante il triste addio feci una promessa a me stesso: fissare in modo indelebile la mia piccola storia con le sue emozioni affinché fossero ricordate per sempre. Ma non solo: desideravo dimostrare riconoscenza a ciò che mi aveva dato la vita, dai genitori ai familiari, finanche agli animali e alle cose. Mi sentivo figlio di tutto.

Credevo di avere a disposizione un tempo infinito, di non invecchiare mai così come non mi rendevo conto che, ad uno ad uno, i testimoni della mia infanzia morivano lasciando un vuoto sempre più grande … ed i fatti del passato principiavano a svanire …

Divenuto consapevole della precarietà della vita e sollecitato da chi credeva in me, in breve tempo, istintivamente e senza troppo ragionare, mantenni l’impegno e scrissi questi racconti che mi fecero ritornare bambino.

A cavallo tra la maturità e l’anzianità, disincantato e quasi sereno, provo ora una impotente compassione per i ragazzi d’oggi, violentati da ogni parte e privati della più elementare sicurezza.

I vecchi forse erano degli educatori migliori di noi …

Ringrazio il mondo per i privilegi che io e pochi altri abbiamo avuto per essere nati negli anni cinquanta … quando si poteva sognare …