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Fulcio Bortot
Le terre del Conte
Campedel, Belluno 2006,

Prefazione

C’è sempre un confine molto sottile tra cronaca e storia, una linea invisibile che pochi sanno riconoscere e meno ancora hanno il coraggio, o la fortuna, di attraversare. Ci prova Fulcio Bortot con questo libro, che è e vuole essere la rielaborazione di una memoria personale legata alla vita e al modo di pensare, immobili da secoli, dei contadini bellunesi. Un’esperienza comunque di grande interesse, perché proprio la generazione che ha vissuto gli anni ’50 del Novecento è stata l’ultima testimone di un’organizzazione sociale e di una cultura popolare che poi sono state travolte e cancellate dall’arrivo anche in Valbelluna del modello sociale, economico e culturale imposto dallo spartiacque, storico e culturale, del Vajont.

Ma Bortot non si lascia prendere dalla facile nostalgia, dall’onda delle memorie edulcorate di una fanciullezza che, per lui come per ciascuno, diventa un luogo mitico dell’anima. C’è tutto questo, ma anche molto altro in queste pagine, perché la fotografia ingiallita dei ricordi viene ristudiata e analizzata con la lucidità di oggi, sempre con l’attenzione volta a stemperare la rabbia secolare accumulata per generazioni con uno sguardo che è ormai libero nel suo giudizio, sulle persone e sulla storia.

Ma un libro come questo consente anche di intuire che ci può essere un modo nuovo di affrontare la storia, per scriverla e per aiutare a capirla. Cosa raccontano infatti i libri della storia nazionale, quella fatta sui campi di battaglia da re e generali, delle battaglie quotidiane combattute per secoli dai contadini bellunesi sui campi, magri e scoscesi, di una mezzadria che fin dalla metà del’500 aveva velocissimamente preso il posto di quella breve stagione di libertà che era stata vissuta dopo la fine di un altrettanto secolare servitù della gleba? In Valbelluna porta la data, incredibile, del 1414, l’ultimo atto di concessione dello stato di liberi ai contadini di Cirvoi ma pochi anni dopo, nella seconda metà del XVI secolo, i nipoti degli ultimi servi della gleba diventeranno i primi mezzadri, iniziando un percorso familiare e sociale che è giunto praticamente intatto fino alle vicende testimoniate da queste pagine.

Uno spaccato prezioso, quindi, in cui microstoria e macrostoria arrivano a toccarsi, offrendo una vasta gamma di spunti di riflessione, personale e collettiva.

Un testo da leggere, insomma, ma anche da rileggere sotto la luce sempre diversa della storia, della cultura, della vita quotidiana, del paesaggio, umano e fisico, di un territorio che è cambiato troppo in fretta. Un'occasione per riflettere, con gli occhi bene aperti.

 

Marco Perale